Uno non dovrebbe mai parlare, criticamente s’intende, di un amico. Specie se questo amico si chiama Marco Bigi. E taccio per carità di patria il cognome decaffeinato e materno che appone per vezzo sulle sue tele. Purtroppo la vita mi ha portato, fin da giovane, ad avere a che fare con artisti. E, con mio disdoro, a scrivere. Quando mi son sentito chiamare “critico” da un noto gallerista ho optato, appena ho potuto, per più umili sentieri: quelli che avevano a che fare con committenza o alto gradimento: satira o illustrazione. Già lo presagivo: ci sono più artisti che automobili. E trovare un parcheggio è un casino. Ho sempre sconsigliato Marco dal farsi scrivere qualcosa da me. Ma lui è più duro dello zoccolo di un frate. Lo sa chi lo conosce e gli vuol bene. Come me e pochi altri ceppiconi. E allora eccomi, caro Marco, a parlare del tuo enorme talento vanamente sprecato. A rincorrere fantasime e malinconie, a immaginare donne chiocciole e paesaggi copulanti, a spedire nello spazio inguaribili comunisti, a trasformare spazi siderali in silenti acquari. Tutto con gran tecnica, nel solco del miraggio della figurazione prospettica e solare, cui ti condanna il tuo D.N.A. valdarnese, il nutrirti di Giovanni da San Giovanni, per non dir Masaccio, ad ogni cantonata e lungo le strade che portano ai tuoi posti delle fragole: Ponti agli Stolli, che è già poesia più dell’odor di ramerino che vi si respira, o Cavriglie, che dicono della tua dura cervice più delle capre alla quale attinge la toponomastica. Ciò che colpisce del Bigi, sia che si metta a calcare il palcoscenico , improvvisando in ottava rima, scrivendo commedie o addirittura recitando lui medesimo o che, rompendo meno i coglioni agli astanti, intinga il pennello nei colori è la felicità delle idee, la giocondità ironica con la quale si mette in gioco e, ridendo, castiga i costumi, ma soprattutto le morali. Trite e grigie della provincia. Ma è più forte di lui. Ed è per questo che siamo amici. L’ho capito accompagnandolo al cimitero dove, quella mattina, cremavano la salma di suo padre. Il ludro, ad un certo punto, prende il telefonino e, con il forno a tutto vapore mentre facciamo due passi all’esterno, chiama sua madre: “Mamma! Sto respirando il babbo”, lo sento dire. Lì ho capito più che in mille testi di teologia mistica o di filosofia morale. Ho capito l’animale, quello vero, che è l’unica nostra salvezza. Respirare il padre, in questo circolo infinito di morte e amore che chiamiamo vita. Che è la sostanza dei colori di Marco, del suo ostinarsi ad amarla, nonostante tutto, questa puttana di vita.